Diane Arbus, la fotografa dei diversi

Vedo qualcosa che sembra meraviglioso;
 vedo la divinità nelle cose quotidiane». 
Platone


Diane Arbus, la fotografa dei diversi o, come era chiamata al suo tempo, la fotografa di mostri. 
Una donna che scelse di ritrarre un ventaglio di esseri umani mai ritratti: albini, travestiti, ermafroditi, giganti, nudisti, personaggi da fiabe da adulti come definiva i suoi soggetti. I denominati dalla società freaks. 

Nella maggior parte dei suoi ritratti i soggetti si trovano nel proprio ambiente, apparentemente a proprio agio. E lo spettatore che è messo a disagio dall'accettazione del soggetto del proprio essere "freak".


Raccontava attraverso la sua fotografia la teatralità umana, dava voce a chi voce non aveva, dava forma a chi forma non possedeva ed era, ed è tuttora, diverso.
Diverso da cosa, da chi? Diverso dai freddi stereotipi di realtà che ci accompagnano nel percorso della vita, diverso nel fisico, diverso nel gusto, diverso ma, al tempo stesso, diversamente uguale a noi.
Il grande potere, la grande forza della fotografa newyorkese era quello di entrare in contatto fisicamente, emotivamente con il soggetto, cogliere e comunicare con la sua anima, relazionarsi intimamente superando vuoti limiti.


Diane Arbus naque Diane Nemerov, in seno ad una ricca famiglia ebrea di New York.
A 14 anni conobbe Allan Arbus, all’epoca commesso presso il magazzino del padre e i due si innamorarono. Il rapporto con Allan, di cinque anni più grandi non era ben visto dalla famiglia, ma Diane scelse di sposarlo appena compiuti i 18 anni, rimanendo tuttavia in buoni rapporti con la sua famiglia. 

Il primo lavoro dei giovani sposi fu un servizio fotografico pubblicitario per la catena del padre, i Grandi Magazzini Russek's. Diane era considerata una ragazza molto dotata e incoraggiata a prendere lezioni private di disegno, ma pur di sposare Allan rinunciò all'università. Durante la seconda guerra mondiale Allan lavorò come fotografo per l’esercito durante il servizio militare. 

Alla fine del conflitto Allan e Diane, nel 1941, decisero di aprire uno studio fotografico, “Diane & Allan Arbus”. 
I suoi lavori iniziali riguardarono la moda attraverso riviste come Glamour, Seventeen e Vogue. 

Diane studiò fotografia brevemente con Berenice Abbott nel 1947, poi con Brodovitch nel 1955, infine con Lisette Model, nel 1956 e nel 1957.
In una intervista a Newsweek Diane raccontò così la sua amicizia con la Model: “Finché non studiai con Lisette sognavo di far fotografie, ma non le facevo davvero. Lisette mi disse che dovevo divertirmi nel farlo...”. 
E’ proprio grazie all'esperienza con Lisette che Diane oltrepassò la sua timidezza e trova il coraggio di fotografare i soggetti che desiderava. 

Nel periodo fra il 1957 e il 1960 Diane scoprì l'Hubert's Museum, un “baraccone” situato all'angolo fra la 42ª e Broadway, dove si esibiva una serie di bizzarre figure che la Arbus fotograferà più volte negli anni.
Più o meno in questo periodo il matrimonio di Diane e Allan entrò in crisi, giungendo alla separazione nel 1958.

Importante e di grande ispirazione nella sua vita fu la visione del film Freaks; la pellicola del 1932 di Tod Browning la toccò profondamente, entrando in sintonia con il suo modo di vedere una realtà multisfaccettata, in contrapposizione con il mondo falso e patinato della moda. 



Un altro luogo importante per la fotografia della grande artista fu il Club '82, situato nella lower Manhattan e frequentato da una serie di figure molto particolari. Fra i primi soggetti fotografati dalla Arbus in questi anni si contano Miss Stormé de Larverie, la donna che si vestiva da uomo, e Moondog, un gigante cieco con una grande barba e corna da Vichingo che era solito passare otto ore al giorno fra la 50ma ovest e la Sixth Avenue, ritratti attraverso la sua Nikon 35 mm. “Dapprincipio mi piaceva la grana. Ero affascinata dal suo effetto nella stampa, perché tutti quei piccoli punti formavano un arazzo e ogni dettaglio andava letto attraverso di essi. La pelle era come l'acqua e il cielo, si aveva più a che fare con la luce e l'ombra che con carne e sangue”, disse in una intervista anni dopo (Aperture 1972, trascrizione di una lezione del 1971).


Con i suo soggetti Diane Arbus instaurava sempre un legame personale, intimo, di intensa amicizia.
Nel 1960 apparve “The Vertical Journey” – un servizio di sei fotografie il cui titolo è tratto da “Alice nel Paese delle Meraviglie” – su Esquire. Nel 1961 pubblicò “The full circle” su Harpar’s Bazaar, grazie alla mediazione di Marvin Israel, art director della rivista.
Le fotografie furono scioccanti per il pubblico dell’epoca, e in effetti la rivista perse alcuni abbonati.



Nel 1963 Diane Arbus ottenne una borsa di studio dal Guggenheim e il MOMA espose le sue fotografie prima nella mostra “Acquisizioni recenti”, nel 1965, e poi ancora nel 1967 nella mostra “New Documents”, dove 30 suoi scatti furono esposti insieme ai lavori di Gerry Winograd e Lee Friedlander.
Spesso le sue fotografie dovevano essere ripulite dagli sputi dei visitatori.



Nel 1970, dopo aver provato la Pentax 8×10 di un amico, ne rimase entusiasta e decide di acquistarne una. Per potersela permettere tiene un corso di fotografia cui partecipano 28 allievi. Con questa realizzò una serie di fotografie di disabili in un istituto, anche in questo caso tornando più volte nel posto e ritraendo a più riprese i soggetti. Questi scatti sono noti come “Untitled”. 


Da anni ammalata di depressione, Diane Arbus a soli 49 anni si suicidò, ingoiando barbiturici e tagliandosi le vene, privando così il mondo di una della più grandi fotografe del nostro tempo. 

Che cosa spinse questa donna ad oltrepassare le convenzioni del tempo e spingersi a ritrarre gli esclusi?  
A 16 anni questo era il suo pensiero, racchiuso in questa frase: «Ci sono e ci sono state e ci saranno un infinito numero di cose sulla Terra. Gli individui sono tutti diversi, tutti vogliono cose diverse, tutti conoscono cose diverse, tutti amano cose diverse, tutti sembrano diversi. Tutto quello che c’è stato sulla Terra è stato diverso dal resto. È questo che amo: la differenza, l’unicità di tutte le cose e l’importanza della vita».


Tra i suoi scatti più famosi, “Child with Toy Hand Grenade in Central Park, New York”, scattata nel 1932, che ritrae un ragazzino estremamente magro con una finta granata nella mano destra e la mano sinistra contratta ad artiglio. Prima di scattare la fotografa aveva iniziato a girargli attorno dicendo che doveva trovare la giusta inquadratura e spazientendo così il bambino. L’espressione del soggetto, che sembrerebbe indicare un’intenzione violenta, era in realtà un invito rivolto a Diane Arbus di sbrigarsi. Il piccolo Colin si spazientì perché, come ogni bambino che si rispetti, voleva tornare a giocare.
È in questo momento che la Arbus scattò la foto che sarebbe diventata famosa. 
Il soggetto, teso e stufo, fa una faccia quasi maniacale, che lo stesso Wood decenni più tardi in un documentario dirà essere la sua imitazione dei personaggi dei film di guerra che amava tanto da bambino. Non solo: a posteriori Wood ha confessato che quello era forse il periodo più duro della sua infanzia a causa del divorzio dei genitori e che nella foto della Arbus ha sempre precipito un senso di commiserazione, come se la fotografa avesse percepito la sua infelicità – così simile forse a quella della Arbus stessa – e fosse riuscita a trasmetterla su pellicola.


Altra immagine famosa, successiva, ritrae un uomo truccato da donna: bigodini, sopracciglia rifatte e curate, unghie lunghe e laccate si fondono con un viso che esprime ineludibilmente la sua mascolinità. All’epoca di questa fotografia – 1966 - la situazione della comunità gay era in fermento, per culminare nella rivolta del ’69, i moti di Stonewall, primo caso di rivolta della comunità gay contro i soprusi e le violenze della polizia. Questa fotografia della Arbus fu probabilmente una delle prime attraverso cui la comunità LGBT entrava nei più prestigiosi musei del mondo.


C’è poi “Identical Twins”, del 1967, che ritrae due gemelle identiche, una imbronciata e l’altr a sorridente, scatto in cui si esprime la bipolarità della fotografa. 
Ma non è solo questo a inquietare. Il nero del vestito e dei capelli delle bimbe si contrappone agli elementi bianchi, al muro di sfondo e soprattutto agli occhi vitrei dei due soggetti. Se Colin indossava un’espressione maniacale perché tirato e teso, queste due gemelle sono inquietanti per la loro calma e per lo sguardo sicuro col quale sembrano presagire tempeste e drammi. Come hanno scritto alcuni critici, il miglior talento della Arbus era di rendere familiari le cose strane e rendere strane le cose familiari, e questa immagine ne è la prova più convincente.

Preparando una mostra al Guggenheim, scriveva: «Voglio fotografare le considerevoli cerimonie del nostro presente perché vivendo qui ed ora tendiamo a percepire solo ciò che è casuale, sterile e senza forma. Mentre ci dispiace che il presente non sia come il passato e disperiamo al pensiero che possa diventare il futuro, le innumerevoli imperscrutabili abitudini giacciono in attesa del loro significato. Voglio raccoglierle, come una nonna che raccoglie le conserve, perché diventeranno belle. […] Questi sono i nostri sintomi e i nostri monumenti. Voglio semplicemente salvarli, perché ciò che è cerimonioso e curioso e comune diventi leggendario».


Diane Arbus ha immortalato, rendendole eterne, persone invisibili ai nostri occhi ridando loro una grande dignità negata da sempre.
Anime eterne sopravvissute agli sputi del tempo.

Copyright
Adriana De Caro ©
ARCHEOloga&artista EMOZIONale

Fonti:
wikipedia.it
Masters of photography - documentary 1972
libriamo.it
cinquecosebelle.it

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